Vissuto a Napoli agli inizi del Seicento, di Monsù Desiderio per oltre tre secoli si seppe soltanto che aveva dipinto diversi quadri di piccolo formato e di concezione davvero insolita. A quei tempi infatti dominavano le rappresentazioni di scene storiche o religiose con grandi movimenti di massa. Invece Desiderio aveva accentrato tutto il suo interesse drammatico sulle scenografie, che fanno di solito da sfondo all’avvenimento principale.
Senza alcun rapporto diretto con edifici realmente esistiti, Desiderio sembra rappresentare sempre la stessa città immaginaria e spettrale, come chi ripeta ogni notte lo stesso sogno.
In questa inquietante città vi sono bizzarri palazzi, chiese e torri, certe volte senza porte e senza finestre, altre volte come trasparenti e sfumati. L’unica differenza che c’è tra un quadro all’altro è che in alcuni gli edifici appaiono intatti, in altri sembrano invece colti sul punto di esplodere: incendi, cataclismi, eruzioni vulcaniche animano e umanizzano queste arcane costruzioni di pietra.
Le figure umane, disseminate qua e là in queste paesaggi mastodontici di edifici sbrecciati e incombenti, appaiono minuscole, indifferenti e totalmente ignare di ciò sta accadendo intorno a loro.
Per molto tempo le tavolette di Desiderio suscitarono sicuramente molta curiosità, ma disperse in collezioni private, non furono mai studiate a fondo.
Bisogna arrivare al 1935 perché lo studioso Luis Réau, rimasto profondamente colpito da queste tele a un’esposizione a Vienna e intravedendo un’evidente premonizione del Surrealismo, cominciasse a gettare le basi per scoprire il mistero dietro a questo pittore.
Meno di trent’anni dopo infatti, lo psichiatra belga Félix Sluys e il professore Roberto Causa condussero separatamente delle indagini giungendo a una scoperta davvero singolare: Desiderio si stava sdoppiando come due immagini sotto i loro occhi e la verità, dopo oltre tre secoli, si stava rivelando.
Desiderio non era napoletano come si era sempre creduto, ma proveniva dalla Lorena.
E non era nemmeno un solo pittore: due lorenesi emigrati a Napoli, Didier Barra e François de Nomé, avevano scelto di fare bottega insieme firmando con quell’unico nome, un Monsierur Didier napoletanizzato in Monsù Desiderio. François de Nomé avrebbe poi risentito di un ulteriore sdoppiamento: la schizofrenia.
Questa chiave consente di distinguere nettamente i quadri dei due pittori: i panorami ordinati vanno attribuiti a Didier Barra, le visioni allucinate a Francois de Nomé.
In epoche lontane ciò che appariva inquietante e misterioso si definiva “prodigio degli dèi”, in altre vi si vedeva l’opera di spiriti e fantasmi, nell’epoca della scienza e della psicologia si spiega tutto con la psicosi. Forse invece quello che è visto come fuori dall’ordinario è solo un modo di percepire la realtà in maniera ultrasensibile.
Che siano il risultano di follia o sogno, resta il fatto che le architetture di Desiderio ci introducono in un mondo allucinato e inquietante, in cui gli esseri umani sembrano totalmente indifferenti ai cataclismi e all‘imminente tragedia che quelli edifici e statue crepate, spezzate e vive ci sembrano mostrare.
Con due secoli di anticipo, i quadri di Desiderio sembrano illustrare in maniera arcana e apocalittica uno dei racconti più celebri di Edgar Allan Poe: La caduta della casa Usher. Una casa, quella descritta da Poe, viva e morente, collegata in maniera simbiotica al destino dei due fratelli che vi ci abitano.
E i colori cupi e rosseggianti di alcuni quadri rimandano a un altro visionario avant-garde come non mai e vissuto 80 anni prima: Hieronymus Bosch.
Un fascino immutato, demoniaco e imperscrutabile aleggia nelle tele di Desiderio, rendendole più moderne che mai.
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